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Repubblica Centrafricana

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Intervista con Alfonso Verdú Pérez, capo missione dei progetti di MSF nella regione di Ouham.

 

In data 07-03-2007
Medici Senza Frontiere

Anno 4
Edizione Marzo 2007

Repubblica Centrafricana, dove le persone mangiano lo stesso cibo degli animali. 

Dalla fine del 2005 un inasprimento delle violenze perpetrate da forze filo e antigovernative nella parte settentrionale della Repubblica Centrafricana (RCA) ha provocato un massiccio sfollamento della popolazione. In questa zona i civili, sospettati di parteggiare per una delle due fazioni, sono vittime di ripetuti atti di violenza o restano coinvolti nel fuoco incrociato. Numerosi villaggi lungo le strade sono stati attaccati, saccheggiati o bruciati, costringendo gli abitanti alla fuga. Inoltre la popolazione civile subisce violenti attacchi anche dai banditi che approfittano dell'anarchia prevalente nell'area. Ad agosto 2006, Medici Senza Frontiere (MSF) ha iniziato ad operare nella regione di Ouham nella parte settentrionale della RCA. I team di MSF forniscono assistenza sanitaria primaria e secondaria nelle zone di Kabo e Batangafo.

A dicembre 2006 i team di MSF hanno contato 36 villaggi parzialmente o totalmente bruciati lungo la strada tra Kabo e Batangafo e tra Kabo e Dékoa. Come vive la popolazione locale?

La violenza presente nell'area, soprattutto l'incendio sistematico delle case che si trovano lungo le strade, ha causato la fuga di molte persone verso il “bush”. Noi non ci rendiamo conto di cosa voglia dire il termine “bush”, ma le testimonianze della gente che abbiamo incontrato rendono bene l'idea: “viviamo come selvaggi”, “abbiamo perso la dignità”, “mangiamo quello che mangiano gli animali”. Quello che accade qui costituisce una crisi umanitaria. Vediamo persone che si sono trovate nel mezzo del fuoco incrociato e che ora sono schiacciate da una parte dall'accusa di essere dalla parte dei ribelli (per cui non possono spostarsi nei villaggi principali per accedere ai servizi sanitari e nemmeno tornare nelle proprie case per poterle ricostruire) e dall'altra subiscono le pretese dei soldati ribelli (che rubano i pochi viveri o esigono i pochi averi rimasti). Tuttavia quando con i team di MSF arriviamo agli appuntamenti prefissati con le cliniche mobili troviamo cibo e biciclette abbandonati lungo le strade: appartengono a civili che pensavano fossimo soldati pronti ad attaccarli di nuovo. Lungo le strade, il numero di villaggi fantasma è aumentato. Qui regna la paura e la popolazione vive tra l'incudine e il martello, in una spirale di violenza che la sta portando al limite della sopportazIone.

Negli ultimi mesi in quest'area il numero di villaggi bruciati dai gruppi armati e dall'esercito della Repubblica Centrafricana è aumentato, costringendo diverse migliaia di persone a fuggire nel “bush”. Quali sono i loro bisogni più urgenti?

Per diversi mesi queste persone sono sopravvissute nelle condizioni più terribili, ma oggi le loro strategie di sopravvivenza stanno cominciando a incrinarsi. Ad esempio sappiamo già che i viveri, che di solito le famiglie nascondono per poter far fronte agli episodi di violenza, sono finiti oppure sono stati rubati da uomini armati. Non conosciamo ancora esattamente le cifre relative alla malnutrizione, tuttavia abbiamo potuto verificare un lieve incremento nel numero di bambini affetti da malnutrizione moderata e acuta. Una serie di fattori hanno contribuito a creare una situazione alimentare molto fragile: tra questi la mancanza di distribuzioni alimentari nel passato, poca o nessuna libertà di movimento, l'assenza di qualsiasi forma di trasporto commerciale. E la situazione è resa ancora più pesante dalla presenza della malaria che colpisce quasi il 70% dei bambini al di sotto dei cinque anni. Quasi il 40% degli adulti soffre di questa malattia che, se abbinata alla malnutrizione, costituisce un pericolo di vita reale. Ma vi sono anche altre malattie ricorrenti a causa delle condizioni di vita nella foresta: infezioni respiratorie, parassiti e diarrea, causati dall'assenza di ripari, dall'impossibilità di bere acqua potabile e da condizioni di vita estremamente dure. All'inizio di gennaio MSF ha concluso una distribuzione di materiali di prima necessità che tuttavia non sono assolutamente sufficienti: servono urgentemente altre zanzariere, kit igienici e coperture in plastica. In ultimo, ma non meno importante, questo scenario rappresenta l'ambiente ideale per il propagarsi di un'epidemia: c'è il rischio di un'epidemia di meningite, che ha un ciclo triennale, e anche di morbillo. Attualmente stiamo seguendo alcuni casi di diarrea sanguinante, scoperti nel corso delle ultime visite effettuate con le nostre cliniche mobili.

I team di MSF devono confrontarsi con i problemi relativi alla sicurezza e spesso non possono raggiungere le persone che hanno bisogno di assistenza, oppure non possono utilizzare le cliniche mobili. Ci può spiegare che genere di difficoltà incontrate e le loro ripercussioni sulle persone che cercate di assistere?

Quando ci sono migliaia di sfollati che vivono in condizioni disumane la priorità è quella di poter accedere alla popolazione per valutarne i bisogni in modo imparziale e intervenire con prontezza. Nelle zone di conflitto l'accesso va guadagnato e negoziato ogni giorno. Nella RCA siamo costretti a farlo tutti i momenti. Nel corso dell'ultimo mese, siamo stati obbligati a cancellare più di sei cliniche mobili lungo tre diversi assi (Batangafo – Kabo, Kabo – Ouandago e Kaga Bandoro – Oundago) quando le autorità militari presenti nell'area non ci hanno dato il nulla osta per recarci nelle zone rurali o quando le nostre analisi dei rischi hanno evidenziato un pericolo per la nostra sicurezza. Tuttavia, nelle ultime due settimane l'accesso è notevolmente migliorato, tutte le nostre cliniche mobili sono di nuovo operative (otto a settimana) e siamo stati perfino in grado di ampliare le attività, avviando una nuova clinica mobile e intervenendo per la prima volta anche tra Batangafo e Kaga Bandoro. I livelli di violenza rendono quest'area della RCA inaccessibile alla maggior parte delle organizzazioni umanitarie. Riaprire centri sanitari precedentemente operativi nelle zone rurali è molto difficile in questo clima di violenza. L'unica alternativa è quella di organizzare un “circuito” regolare di cliniche mobili come sta facendo MSF. Composte da numerosi medici e infermieri, le cliniche mobili sono l'unico modo per offrire assistenza sanitaria sul posto a una popolazione che, come già riferito, non può accedere ai centri sanitari dei villaggi perché viene accusata di essere dalla parte dei ribelli, né può utilizzare il sistema sanitario preesistente che è andato completamente distrutto. Le nostre cliniche mobili effettuano in media 150 visite al giorno e la maggior parte delle persone curate si trova in una situazione di estrema vulnerabilità. Tanto per citare un esempio, nel corso dell'ultimo mese sono stati medicati oltre 500 feriti e nella maggior parte dei casi le ferite erano dovute alle durissime condizioni di vita.

È stato testimone di una storia o di un episodio che può spiegare la situazione di violenza che i civili devono affrontare?

Sì, è la storia di H. J., insegnante in un piccolo villaggio completamente raso al suolo da un incendio alla fine di dicembre del 2006. H.J. ha esordito deplorando il fatto che “l'anno scolastico è andato perso”. Ha continuato ad essere professionale anche nella situazione più difficile: aveva i vestiti sporchi e laceri. Ha continuato dicendo “Non riesco a capire perché nessuno stia facendo niente per i nostri bambini”. È stato lui a spiegarmi cosa significa vivere nel “bush”, come accennavo prima. Mi ha detto: “viviamo come bestie, come selvaggi, guardi i miei vestiti, ho perso la mia dignità” . H.J. è uno dei capi della comunità. Mentre mi parlava guardava gli altri otto membri che rappresentano il villaggio. “Viviamo nel ‘bush', divisi per famiglie, quando abbiamo paura ci raduniamo in gruppi di 20, anche 40 persone, tutti stesi per terra”. Era un argomento molto delicato ed è per questo che ho aspettato che terminasse la riunione per chiedergli da cosa derivasse questa paura. “ Prima avevamo paura solo delle FACA, l'esercito, sapevamo quando, dove e come stava arrivando dalle nostre parti e quindi riuscivamo a evitarlo. Ma ora è difficile perché non sono solo le FACA a venire dalle nostre parti ma anche i gruppi ribelli che pretendono il poco cibo e i pochi averi che ci restano. Se non diamo loro quello che ci chiedono ci picchiano. E ogni volta è sempre peggio”. H. J. descrive la sua paura del futuro: “Sono molto preoccupato per i prossimi mesi perché non abbiamo potuto lavorare la terra e non abbiamo più niente da mangiare. Adesso mangiamo solo miele e frutta selvatica”. H. J. ha otto figli tra i sei mesi e i nove anni. “Il mese scorso sono morte quindici persone nel mio villaggio, molte a causa della diarrea. Se vuole può venire con me a contare le tombe”.

Qual è stato il suo primo pensiero quando ha visto un villaggio bruciato e deserto?

All'inizio non capisci quello che stai vedendo. Pensi che quella di andarsene sia stata una scelta della comunità. Quando capisci che è invece il risultato di una violenza diretta a questa gente, pensi che sia una cosa inaccettabile anche se sei già stato in altri luoghi di conflitto. Non ti ci abitui mai. Parliamo di piccoli villaggi, solitamente con meno di 300 persone che sono perfettamente integrate con l'ambiente e che conducono una vita estremamente povera ma funzionale... e all'improvviso scompare tutto e rimangono solo le fiamme e la fuga, che danno il via a una serie inesauribile di guai: malnutrizione, epidemie e malattie.

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