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La serenissima letteraria

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Leone d’Oro al goethiano Faust del russo Sokurov

Il Leone d’Oro al Faust di Aleksandr Sokurov, alla 68esima kermesse veneziana, ha messo d’accordo tutti. Il cineasta russo gioca sul mito goethiano, senza dimenticare gli altri autori che hanno sfruttato lo stesso mito per i loro capolavori: una su tutte la monumentale opera lirica di Richard Wagner, personaggio che nel film è immaginato come allievo del dottor Faust e i cui richiami musicali sono parte integrante della pellicola. Sin dal primo impatto, il film risulta un’opera estetica e filosofica, non contempla, infatti, nessuna sensazione “di pancia”, rappresentando il punto di forza di un lavoro molto raffinato ma anche il suo limite. Aiutato dall’ottima collaborazione del direttore della fotografia Bruno Delbonnel, il cineasta russo privilegia i colori polverosi, i grigi, le nuances della terra, a voler sottolineare gli aspetti più sordidi e sudici della storia. Mefisto, rappresentato come un usuraio sporco, puzzolente, nei panni di un satiro, con i genitali al posto della coda, risultando grottesco, non ha nulla del fascino seduttivo del male, a favore, invece, del lato torbido insito nell’inganno. Eppure Faust viene circuito dall’inganno ma non vi resterà intrappolato per sempre. Il film comincia con la domanda sull’anima, se essa sia racchiusa nel cuore, nella mente o addirittura nei piedi. La sete di conoscenza del protagonista, partendo da interrogativi esistenziali e filosofici, via via si avvicina sempre più al desiderio propriamente detto, superando l’esperienza intellettiva per abbracciare quella dei sensi.

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 Una volta appurato, dunque, che la conoscenza data dallo studio si rivela insufficiente ai fini della felicità, Faust vira verso i sensi con l’illusione di placare una volta per tutte il suo desiderio di conoscenza, per riempire il suo incolmabile vuoto interiore. Eppure non sarà così, perché la sua resterà una ricerca senza fine, nel cui vortice tanto l’esperienza intellettiva quanto quella sensoriale verranno fagocitate, rivelandosi niente più che semplici anelli di una catena infinita. È una frenesia, quella del dottor Faust, che sullo schermo si traduce in un continuo muoversi, spostarsi da un luogo all’altro per andare oltre, come di chi è condannato a non trovar mai pace. Il diavolo ha il controllo sulla sua preda ma è un controllo voluto e permesso dalla stessa e solo finché serve. Egli è, in fondo, sopraffatto dall’uomo che si ergerà, in seguito, a suo giustiziere, per continuare indisturbato la sua corsa. Ecco che Margarete perde il suo potere assoluto, non è più il desiderio proibito al di sopra di tutto. Lei è solo la luce pura della giovinezza e come tale si rivelerà passeggera. Si è disposti a tutto per lei ma solo per un attimo, niente di più. Quel che era il fine ultimo di un appagamento assoluto a costo addirittura della propria anima, si trasforma, dunque, nel film, in un semplice mezzo. Nella rappresentazione della tragedia personale di un uomo di potere, quale Faust è, Sokurov affronta la catastrofe di chi è causa del suo mal, rappresentandolo come un dio o un semidio al tramonto e incarnando in lui un ideale malato di superomismo nietzschiano. Il film, infatti, è l’ultimo tassello della tetralogia del potere del maestro russo, che ha contemplato la figura di Adolf Hitler in Moloch (1999), Vladimir Lenin in Taurus (2000) e dell’imperatore Hirohito nel film Il sole (2005). Il Faust di Sokurov mette a tacere perfino il demonio, seppellendolo sotto una pioggia di massi e lo fa’ avvalendosi dei difetti peggiori dell’essere umano: avidità e cupidigia. La sua, tuttavia, è solo una vittoria di Pirro. Egli non si sottrae alla propria caduta, condannando se stesso ad un eterno ed insoddisfacente peregrinare, in cui nessun valore ha valore e l’inestricabile vuoto interiore si confermerà tale e quale ad ogni passo. A causa del totale svuotamento di ogni qualità, il film sembra rimandare al terrificante spettro dell’uomo senza qualità di Musil, emblema di una vera e propria malattia della volontà, infatti. La parte più buia dell’essere umano offre a Faust la sua vittoria sul diavolo ma è la stessa che decreta la sua condanna, senza via di scampo, perché il vero demone è dentro se stesso. Il messaggio della pellicola, dunque, non è tanto quello di un uomo che si sostituisce a Dio quanto quello di chi, illudendosi di essere invincibile, viene intrappolato nella propria gabbia di eterna frenesia e la fredda distesa bianca che si apre davanti a Faust, alla fine del film, sembra anche più arida e desolante del deserto.

Margherita Lamesta

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