Geoingegneria: alcune idee per cambiare il clima
“Se vogliamo migliorare il nostro pianeta e adattarlo al nostro stile di vita, dobbiamo modificarne il clima”. Così scrivevano nel 1965 N.P. Rusin e L. Flit, autori di un libro intitolato “Uomo vs Clima”. I due scienziati russi sognavano di “riplasmare” la Terra, invertendo il corso dei fiumi o sciogliendo l’Artico per irrigare i campi di grano sovietici. Pura fantascienza, per fortuna. Come osserva Sanjida O'Connell in un articolo apparso sul Daily Telegraph qualche giorno fa, negli ultimi 40 anni l’uomo ha sicuramente contribuito a cambiare il clima del Pianeta, ma non lo ha certo migliorato.
Oggi, quindi, “alterare” il clima sulla Terra non vuol dire sparare micro particelle bianche nello spazio per illuminare la notte - come auspicavano i due scienziati sovietici - ma piuttosto significa “rattoppare” con l’uso della tecnologia i danni causati da questa stessa tecnologia. Secondo James Lovelock, che ha formulato l’ipotesi “Gaia”, secondo la quale la Terra sarebbe un organismo vivente dotato di meccanismi di autoregolazione, l’uomo è riuscito a mettere in crisi la capacità “omeostatica” del nostro Pianeta e adesso deve affrontarne le conseguenze, ossia il rischio di estinzione della specie. Senza arrivare a questi livelli di allarmismo, sono in tanti oggi a credere nella necessità di cambiare il corso degli eventi climatici prima che sia troppo tardi. E’ quello che cerca di fare la cosiddetta “geoingegneria”, quella branca dell’ingegneria che si occupa di integrare le opere dell’uomo con l’ambiente circostante.
Lo scorso settembre, una rivista della Royal Society britannica ha pubblicato un’edizione speciale, curata dal professor Brian Launder dell’università di Manchester e dedicata ai metodi più innovativi per modificare il clima: le proposte in questo campo sono spesso drastiche e abbastanza avveniristiche: deflettere i raggi solari, raffreddare gli oceani, eliminare il carbonio dall’atmosfera. Vediamo più da vicino di che cosa si tratta.
Uno dei metodi su cui puntano molti scienziati per contrastare il surriscaldamento del Pianeta è la fertilizzazione dell’oceano con il ferro (Ocean Iron Fertilization, OIF), che consiste nel disperdere una certa quantità di questo metallo nei livelli superiori dell’oceano per stimolare la crescita di fitoplancton, che assorbe CO2 dall’atmosfera. Quando il fitoplancton muore, si deposita sul fondo dell’oceano, dove “intrappola” il carbonio che ha assorbito con la fotosintesi. Molti, però, invitano alla cautela perché finora non ci sono prove che questo metodo sia realmente efficace per ridurre i livelli di CO2: pare, infatti, che gli scienziati ne abbiano sovrastimato l’efficacia tra 15 e 50 volte. Inoltre, non è possibile prevedere gli effetti biochimici ed ecologici che potrebbero avere massicce dosi di ferro sull’oceano.
Stephen Salter, dell’università di Edimburgo, ha progettato una flotta di “navi di Flettner” con il compito di “far brillare” le nuvole [1] . Le navi vaporizzano nell’aria finissime goccioline d’acqua di mare che raggiungono le nuvole più basse. Il sale contenuto nelle gocce d’acqua aumenta la superficie riflettente delle nuvole e quindi la loro capacità di deflettere le radiazioni solari nello spazio, contrastando così il riscaldamento globale.
C’è chi, invece, il clima lo combatte dall’alto. Roger Angel (università dell’Arizona) ha ideato un vero e proprio “scudo spaziale” contro le radiazioni solari. Sparando nello spazio sottili dischi trasparenti del diametro di 60 cm circa si formerebbe una grossa nuvola composta da 100.000 lenti. Lo scudo, riflettendo i raggi del sole nello spazio, ci proteggerebbe dall’1.8% delle radiazioni.
Per quanto affascinanti siano questi progetti, siamo ancora molto lontani dal poterli mettere in pratica. In una pubblicazione apparsa recentemente su Atmospheric Chemistry and Physics Discussions, Tim Lenton dell’università di East Anglia ha messo a confronto 17 tecniche geoingegneristiche per testarne la validità. I risultati? Non proprio rassicuranti. Le navi di Flettner, ad esempio, rischiano di peggiorare i cambiamenti climatici perché le correnti e i venti da cui dipende il funzionamento della flotta potrebbero raffreddare l’oceano in maniera non uniforme.
“La geoingegneria non è una soluzione – ammette Lenton. Fra 50 anni avremo forse a disposizione sistemi a zero emissioni, ma a noi servono progetti attuabili in un futuro molto più prossimo”.
Note:
[1] La nave di Flettner, progettata dal tedesco Anton Flettner nel 1926, al posto delle vele ha due alti cilindri messi in rotazione da un apposito motore. La nave sfrutta l'effetto Magnus: un cilindro rotante in un flusso d'aria sviluppa una forza nella direzione perpendicolare a quella da cui proviene il vento.
Link consigliati:
Sanjida O'Connell, “Can geo-engineering rebuild the planet?”, Telegraph (20/02/2009)
http://www.telegraph.co.uk/earth/4641586/Can-geo-engineering-rebuild-the-planet.html
Per approfondire il tema della fertilizzazione dell’oceano con il ferro, consiglio l’ampio e documentato dossier pubblicato sulla rivista americana “Oceanus”: “Fertilizing the Ocean with Iron. Should we add iron to the sea to help reduce greenhouse gases in the air?”
http://www.whoi.edu/oceanus/viewArticle.do?id=34167
Lenton, T.M. e Vaughan, N.E., “The Radiative Forcing potential of different climate geoingeneering options”. Atmospheric Chemistry and Physics (28/01/2009)
E’ possibile scaricare la versione integrale (in inglese) dell’indagine condotta da Tim Lenton al seguente link:
http://researchpages.net/media/resources/2009/01/28/acpd-9-2559-2009_p.pdf
Elmar Burchia, “Navi robot contro il riscaldamento globale”, Corriere della Sera (03/09/2008)
http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/08_settembre_03/navi_robot_riscaldamento_7c925ab4-79bb-11dd-9aa0-00144f02aabc.shtml
Veronica Rocco