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In tribunale i bambini sono testimoni più attendibili degli adulti

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In tribunale i bambini sono testimoni più attendibili degli adulti. Lo rivela uno studio americano, che ammette: la memoria dei bambini non cade nella trappola dei “falsi ricordi”
 

- Giuri di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Dica “lo giuro”.
- Lo giuro
- La parola all’accusa.

Quante volte, guardando una delle nostre serie televisive preferite, ci è capitato di ascoltare un dialogo come questo? Gli appassionati di thriller giudiziari hanno imparato a conoscere e decodificare gli insidiosi trabocchetti che gli avvocati del piccolo schermo utilizzano per “mettere alle strette” il teste di turno, confondendolo e facendo vacillare le sue certezze.

Nei processi, si sa, ci sono testimoni attendibili e testimoni inattendibili. Il sistema legale americano, per esempio, considera i bambini dei testimoni meno credibili rispetto agli  adulti. Fino agli anni ’60 del secolo scorso, infatti, non erano ammesse in tribunale le testimonianze rilasciate dai minori al di sotto degli otto anni perché ritenute inadeguate. Da oggi, però, le cose potrebbero cambiare radicalmente. Un recente studio, condotto da Valerie Reyna e Charles Brainerd della Cornell University, sostiene una tesi tanto paradossale quanto affascinante: i bambini sarebbero testimoni più attendibili degli adulti. Il motivo? Conservano una memoria “letterale” dei fatti e ricordano quello che hanno effettivamente visto, mentre gli adulti raccontano ciò che “pensano” di aver visto.

Il testimone giura di dire la verità sulla Sacra Bibbia. Ma che cos’è la verità? Non è certo questa la sede per fare un discorso epistemologico sul concetto di verità. Più semplicemente, possiamo dire che la “verità” del testimone chiamato a deporre in un’aula di tribunale è il racconto di ciò che ha visto, o meglio, di ciò che ricorda di aver visto. Il sistema legale americano normalmente ammette due sole possibilità: o il teste dice la verità, oppure mente. Esiste, però, una terza ipotesi. La memoria – secondo i due studiosi della Cornell University – è come un Giano bifronte: registra e immagazzina i ricordi in due emisferi distinti e separati del cervello. Nella memoria dell’adulto, gli eventi passati vengono archiviati in quella parte della mente che registra il “significato” di ciò che è accaduto. In altre parole, l’essere umano in età adulta tende a filtrare e mediare il ricordo attraverso la lente – spesso fuorviante – della sua esperienza. Il complesso mondo delle emozioni si frappone tra noi e la memoria dell’evento, facendoci cadere nella trappola dei “falsi ricordi”. E’ la “teoria delle tracce confuse”, sviluppata da Reyna e Brainerd negli anni ’90i. Il bambino, a differenza dell’adulto, non ha ancora sviluppato sufficientemente la capacità di associare a ciò che vede e ricorda un significato derivato dall’esperienza. Ed è per questo motivo che la memoria infantile è una memoria letterale: ricostruisce gli eventi esattamente come li ha visti, senza il filtro dell’esperienza.

Recentemente, nell’Illinois, Stati Uniti, oltre duecento condanne per omicidio si sono rivelate infondate in quanto basate sui falsi ricordi dei testimoni chiamati a deporre. La teoria formulata dai due ricercatori americani apre, dunque, nuove prospettive per la scienza forense. Evidenziando le differenze cognitive nell’elaborazione del ricordo da parte di adulti e bambini, da un lato consente di restituire alla testimonianza del bambino pieno valore legale, particolarmente utile soprattutto nei casi di abuso sui minori, dall’altro costituisce un prezioso strumento di indagine per investigatori, avvocati, giudici e poliziotti, aiutandoli a riconoscere i falsi ricordi e a stimolare la memoria “letterale” dei testimoni.

Link utili:
Cornell University
http://www.human.cornell.edu/che/news_events.cfm?id=69385&rec_date=&pagetype=news-story&related=

National Science Foundation
http://www.nsf.gov/news/news_summ.jsp?cntn_id=111230&govDel=USNSF_51

Veronica Rocco
 

Flash News

Shame di Steve McQueen, in concorso a Venezia 2011, è una pellicola durissima che indaga i sentimenti e le pulsioni più torbide e scabrose, di cui ci si vergogna, analizzate attraverso uno dei rapporti più difficili da costruire, gestire e indagare, quello tra fratello e sorella. Michael Fassbender, al massimo della sua prova d’attore - tanto da aggiudicarsi a pieni meriti la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile - affronta un personaggio, Brandon, diviso in una sorta di schizofrenia congenita tra successo nel lavoro e discesa agli inferi della sua anima. Sissy-Carey Mulligan, sorella di Brandon, invece, è una ragazza senza un lavoro vero e con velleità di cantante. Lei, balorda, randagia e fragile, proprio come Holly di Colazione da Tiffany, si aggrappa al rapporto col fratello, il quale, al contrario, fa di tutto per respingerla. Il regista si serve di un occhio filmico oggettivo e tutto votato al presente, non scade mai, infatti, nella banalità giustificatrice della ricerca dei traumi violenti da cui ha origine un simile comportamento, anche se ce li fa sottendere. Così facendo, dunque, emerge meglio la solitudine profonda e l’impossibilità di relazione con gli altri dei due protagonisti, se non attraverso il diaframma di un sesso malato. Brandon adora sua sorella Sissy – un nome non casuale se si pensa che per ogni fratello la sorella è sempre la principessa di casa – ma fa di tutto per tenerla lontana. Quello tra i due è un rapporto difficile, geloso, esplosivo, pieno di vergogna – “potresti chiudere la porta” rimprovera il giovane a Sissy mentre, rientrando a casa e non sapendo di trovarla lì, la vede uscire nuda dalla doccia - ma sta lì. Egli teme la sua devozione e dedizione per la sorella, perché sa che è uno dei pochi legami immutabili della vita di un uomo e lui ha paura di legarsi. Ne é prova tangibile la sua vita sessuale, da cui Brandon non riesce a trarre soddisfazione se non da un sesso estraneo, compulsivo, pornografico o pagato.
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