Jung, nel tentativo di curare la paziente di cui si è innamorato, scopre la propria malattia fatta di insuperabili sensi di colpa. Liberando lei dagli impulsi, dalle regole e da un inquadramento sociale rigido ed ingessato, tocca la propria prigione, entrando in un vortice di esaurimento nervoso dal quale non riuscirà ad uscire. “Solo un medico ferito può curare un paziente” e “Talvolta bisogna compiere qualcosa d’imperdonabile per continuare a vivere” sono le due battute in cui si sintetizza il forte messaggio del film. Il regista, parlando di psicanalisi, usa il mezzo stesso come strumento di analisi, contrapponendo l’ambientazione e i costumi molto eleganti agli istinti più torbidi dell’essere umano e giocando sapientemente con i contrasti, includendo lo scarto tra espressione e parola. Peccato, tuttavia, che quest’alone di freddezza non si riscaldi mai davvero, tranne in qualche scena sporadica come, ad esempio, quella in cui Jung, abbracciato alle ginocchia di Sabina, piange calde lacrime di disperazione.
Margherita Lamesta