La comunità texana, alle prese con quel che resta dell’antico sogno americano, è la protagonista di Low tide, di Roberto Minervini, alla sua seconda prova, approdato a Venezia nella sezione Orizzonti. Il film fa parte di una sorta di “trilogia texana” composta dal precedente The Passage e da un terzo film attualmente in lavorazione.
Alla ricerca dell’America più vera, quella che non ha voce, che neppure vota – essendo quella di votare una scelta facoltativa, negli USA – la camera a mano si muove lenta e punta su spazi desolati, immensi, desolanti. La regia e la sceneggiatura sono tutte e due più o meno improvvisate. Il regista ha parlato di un trattamento allargato, composto da meno di trenta pagine, come linea di massima per il girato, il quale trattamento/sceneggiatura non è condiviso con gli interpreti, chiamati inevitabilmente all’improvvisazione. Minervini non ama dirigere le emozioni che debbono rispondere alle reazioni spontanee degli interpreti, al massimo dà indicazioni sulle azioni – stando alle sue dichiarazioni, in conferenza stampa.
Eppure, il suo tentativo di raccontare l’incomunicabilità, tutto sommato, si sfilaccia in tempi lunghi che assopiscono. Madre e figlio vivono come separati in casa, lei troppo occupata dal lavoro e dalle sbronze e il bimbo troppo solo per costruire o immaginare un futuro. La ricerca di verità è spesso confusa e ne dà prova il modo di girare, che sembra andare a vuoto, senza meta e senza emozionare davvero. Quanto all’abbraccio finale tra madre e figlio, esso non risolve l’incomunicabilità né la posizione ai margini sociali di certe realtà che probabilmente non conoscono né possono provare a trovare un’altra ragion d’essere. Non è un caso, infatti, che avvenga nel mare ma non è sotto il sole cocente, quanto tra le nubi riflesse nell’acqua da queste oscurata.
Circa la similitudine con i fratelli Dardenne, la differenza è nell’approccio. Nei fratelli belgi, il risultato scarno ed essenziale come il crudo realismo della narrazione sono il frutto di una rigida e meticolosa costruzione a monte, che Minervini rigetta già come sintassi metodologica di lavorazione. Il regista marchigiano è giovane e di tempo per costruire una propria sintassi ne ha, purché sia interessato a non confondere semplicità con semplificazione. E quel che più interessa, è ricordare che una camera mentre inquadra qualcosa ha il dovere di restituire allo spettatore una verità artistica, che non è né deve essere il riflesso piatto di quella reale.
Margherita Lamesta