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La musica delle sfere

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Pitagorici
Pitagorici
La musica delle sfere

"Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l'armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.
La novità del suono e 'l grande lume
Di lor cagion m'accesero un disio
Mai non sentito di cotanto acume”.

(Dante Alighieri, Par. I, 73-84)

Questi versi della “Divina Commedia” del sommo poeta ci riportano ad una credenza assai antica, che figurava il cosmo come un insieme di sfere concentriche che ruotando generano una musica chiamata la “Sinfonia delle sfere”.

La storia di questa musica celeste è descritta per la prima volta da Eudosso di Cnido all’incirca nel 500 a.C., e poi raccontata anche nelle opere di Platone e in quelle di Cicerone. Per alcuni questa armonia del cielo è perfettamente tangibile, ma noi non la sentiamo più perché ormai è diventata un sottofondo naturale, mentre per altri si tratta solo di una musica astratta, frutto della fantasia dell’uomo.

Al tempo dei pitagorici si conoscevano sette pianeti, uno per ciascun suono, i quali giravano su sé stessi e fra loro producendo degli intervalli musicali piacevoli ed armoniosi, quelli che nella scienza dell’armonia sono detti giusti o anche consonanti. Tali suoni erano gli stessi prodotti da un antico strumento musicale formato da corde tese, le quali avevano una lunghezza precisa adatta alla produzione di un singolo suono, e la proporzione fra la dimensione della corda ed il suono da essa prodotto era facilmente calcolabile da un rapporto matematico.
Così nacque l’idea che la distanza tra i pianeti ed il suono che essi generano nel loro movimento è un fatto puramente scientifico e perfettamente misurabile, tanto che già nel papiro di Eudosso si rintraccia il rapporto matematico della distanza Terra-Luna e di quella Terra-Sole, ritenuto pari ad 1/9, intervallo equivalente alla distanza di un tono intero (come quella tra un Sol ed un La anche ad ottave differenti). Lo stesso modello lo descrive Plinio, che in più indica una precisa corrispondenza fra le distanze astronomiche dei pianeti dalla Terra e gli intervalli musicali che tale distanza genera, così che, secondo la scala musicale, la Terra emette un Do e gli altri pianeti le altre note Re, Mib, Mi, Sol, La, Sib, Re, in successione.

Questa suggestiva affermazione non è solo frutto di studi antichi, perché anche all’inizio del 1500 lo studioso Maurolico, sostenendo la presenza di altri due pianeti in aggiunta a quelli già conosciuti, ne confermò la veridicità pur ricavandone una diversa successione di suoni (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Sib, Do, Re), e dopo duecento anni Achille Petavio ne estrasse un altro ancora (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Sib, Si, Do), così che tale antica tradizione associativa fra la musica ed il cosmo continuò a perpetuarsi nelle ricerche scientifiche del secolo dei lumi, e la scienza dell’armonia allora codificata apparve quindi come un elemento essenziale della musica, perché rispecchiante in maniera perfetta la stessa armonia dell’universo.


Marina Pinto

 

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