Days of heaven, del maestro Terrence Malick – Palma d’Oro a Cannes 2011 per The tree of life – è anche la prima prova da protagonista del divo Richard Gere, che per il ruolo di Bill, si aggiudicò il David di Donatello per il miglior attore straniero, nel 1979. Il film annovera tra le sue perle, il premio per la Miglior regia a Cannes 1979, oltre all’Oscar al dp Nestor Almendros e a due Nomination agli Oscar per Ennio Morricone e Sam Shepard. Il perfezionismo del maestro balza subito agli occhi: ben 5 mesi di provini e tre anni di postproduzione. Gere entra nel progetto filmico a 26 anni per uscirne a 29. Molto più di una gestazione, dunque, questa pellicola dal sapore biblico ci piace ricordarla con le parole del gentiluomo zen: “…sembra una parabola religiosa e Terry ingaggiò una seconda unità che si doveva occupare soltanto delle scene riguardanti la natura girate per lo più nel West, in Canada e negli USA. La natura è quello che è e non ha rimpianti. Il vento e la pioggia, le forze brute della natura sono incontrollabili come noi e la nostra forza interiore e l’intelligenza umana non è nè peggiore nè migliore di una roccia. Terry dà molto spazio alla natura, tant’è che dopo il montaggio molto dialogo era sparito e io mi arrabbiai molto con lui, fino a rendermi conto di dover rinunciare alla fine perchè lui voleva così…”.
Infatti, Richard Gere – premiato con il Marc’Aurelio alla Carriera al sesto Festival Internazionale del Film di Roma - racconta come gli effetti speciali erano limitati allora e per la scena delle locuste furono fatte cadere da un elicottero una specie di perline ma l’effetto ottico era il contrario, ovvero queste sembravano alzarsi da terra. “Per avere questo effetto noi cominciammo a camminare al contrario, anche i cavalli…”. Tutto è avvolto dalla stupenda fotografia di Nestor Almendros per il quale Days of Heaven fu il primo film fuori dall’Europa. Il dp spagnolo eliminò totalmente l’uso delle luci aggiuntive, infatti - puntualizza l’ex American Gigolo - “Il cielo fu coperto per la maggior parte delle riprese, quindi girammo nelle prime ore del mattino e nel tardo pomeriggio in quei soli 20 minuti di luce magica. ll resto del giorno si provava per essere perfetti e pronti ad utilizzare quei soli 20 minuti. In ogni singola inquadratura c’era sempre qualcosa che si muoveva con un senso di tempistica e un movimento difficile da realizzare”.
A trentatré anni di distanza Gere è diventato un divo, meritatamente, anche con il suo essere un anti-divo, romantico e innamorato, si emoziona all’idea di vedere il film, dopo trentatré anni e per la prima volta accanto alla sua compagna di vita, a cui non risparmia parole innamorate, espresse pubblicamente.
Ecco qual è oggi il pensiero di un sessantaduenne in forma, a proposito del cinema e del suo lavoro: “Credo che ognuno di noi, in qualche modo, provi disagio verso il mondo. E anch’io da giovane mi sono sentito molto a disagio. Il buddismo mi ha colpito, ad un certo punto della mia vita, perché mi ha messo in relazione con un senso della realtà più profondo, mi ha permesso di rompere le bugie con cui ero abituato a vedere e di capire che la realtà è amore, generosità, condivisione. Credo che sia questo il modo giusto per comprendere la realtà dell’Universo…
Recitare per me è un lavoro, un lavoro molto bello, che mi piace, ma non ho aspettative particolari. È un lavoro che amo ma voglio considerarlo con senso d’umiltà. A me interessa la vita. La mia famiglia è la cosa più importante per me e allo stesso posto ci sono i miei maestri. Il cinema è un lavoro grandioso ma non è il centro della mia vita. Ho avuto una società di produzione per un po’ e mi sono accorto che era uno spreco d’energia, perché sottraeva tempo ai miei interessi. Non pianifico mai il futuro, di solito sono pronto ad accogliere quello che mi capita, a leggere le sceneggiature che mi arrivano e che mi piacciono.” Ed ecco cosa pensa dei miracoli tecnologici al cinema, trent’anni fa solo sospirati, oggi assolutamente reali: “Io credo che la magia della recitazione non si possa creare al computer. Alla fine si tratta sempre di raccontare una storia: da quando eravamo uomini primitivi e ci riunivamo intorno al fuoco fino ad oggi, è sempre stato il racconto la cosa più importante. Credo che sia la potenza della storia, che in realtà è un principio molto semplice, il centro di tutto e non la tecnologia, che è una cosa molto divertente ma relativa. Il viaggio umano dal buio alla luce è nel racconto."
Difficile aggiungere altro di fronte ad un’apologia della recitazione e della storia, grazie alla quale si può solo sperare che attori e autori di talento trovino ancora uno spazio adeguato alle loro capacità.
Margherita Lamesta