Il 26 febbraio è stata inaugurata la prima banca mondiale fitogenetica di Svalbard, nel cuore del circolo polare artico. Costruito vicino al villaggio norvegese di Longyearbyen, sull’isola di Spitzbergen, il caveau accoglierà oltre cento milioni di semi provenienti da più di cento Paesi. Per l’occasione, l’artista norvegese Dyveke Sanne ha realizzato un’opera architettonica di grande impatto visivo, fatta di prismi, specchi e acciaio che riflettono la luce bianca dei ghiacci artici.
Nata dalla collaborazione fra la Nordic Gene Bank, il Ministero norvegese dell’Agricoltura e il Global Crop Diversity Trust, la banca fitogenetica mondiale ha lo scopo prioritario di salvaguardare il futuro della diversità genetica dei nostri ortaggi. Oggi, in giro per il mondo, ci sono 1.400 grandi collezioni di semi, la metà delle quali si trova nei Paesi in via di sviluppo, con oltre 200.000 varietà di frumento, 30.000 di mais, 47.000 di sorgo. Il rischio di perdere questo prezioso materiale resta comunque elevatissimo e dipende da molti fattori: guasti, black out, catastrofi ambientali, distruzioni belliche. Le banche fitogenetiche di Afghanistan e Iraq, per esempio, sono andate distrutte negli ultimi anni proprio a causa della guerra.
Nella riserva di Svalbard, i semi, conservati ad una temperatura media di -20° C, resteranno congelati per almeno duecento anni, anche in caso di sconvolgimenti climatici. Sembra che alcuni tipi di sementi potrebbero durare perfino migliaia di anni.
La scelta di custodire milioni di semi in un gigantesco forziere perso fra i ghiacci del Polo Nord non è casuale. Svalbard è fatta apposta per offrire tutte le garanzie di sicurezza ai suoi piccoli ma preziosissimi ospiti: è un’area geologicamente stabile, con bassi livelli di radiazione e scarsa umidità; inoltre, la presenza di uno spesso strato di permafrost favorisce la conservazione dei semi, anche in caso di black out. E’ una regione politicamente stabile, dove sono vietate le esercitazioni militari; gode di ottime infrastrutture ed è ben collegata con i maggiori centri urbani del Paese.
L’agricoltura accompagna la storia dell’uomo da tredicimila anni, ossia da quando l’uomo abbandonò la vita nomade per quella stanziale e cominciò a coltivare la terra. Ma la protezione delle sementi ha una storia molto più recente, appena 100 anni. Solo negli anni Venti, infatti, gli agricoltori iniziarono a selezionare i semi per creare nuove varietà di piante, più forti e resistenti.
La diversità è la linfa vitale dell’agricoltura. Ne sapevano qualcosa gli Incas, che nelle loro andenes coltivavano ben tremila tipi diversi di patate: blu, rosse, rosa, gialle, arancione, con la buccia liscia, con la buccia rugosa, patate che sopportavano la siccità o che al contrario richiamavano acqua. Insomma, l’antico contadino delle Ande aveva già capito, settemila anni fa, che la monocoltura è il nemico giurato dell’agricoltura. La diversificazione, in realtà, è anche quello che vogliono i consumatori, che cercano una farina di frumento per la pasta e una per il pane, un tipo di pomodoro per il sugo e uno per l’insalata. Gli agricoltori, inoltre, hanno bisogno della diversità perché coltivano le loro piante in condizioni climatiche e territoriali molto diverse fra loro.
I semi sono naturalmente abituati ai pellegrinaggi: trascinati dal vento, sparsi sul territorio dagli insetti, trasportati dalle grandi migrazioni degli uccelli, hanno attraversato interi continenti. L’estrema variabilità genetica, per esempio, ha fatto sì che il melo, originario delle foreste che circondano Alma Ata, in Kazachstan, sopravvivesse alle rotte della Seta per approdare prima in Europa e poi in Nord America, dove si è moltiplicato in una incredibile varietà di specie. E’ grazie alla biodiversità, ossia alla varietà genetica delle piante coltivate, che l’agricoltura si adatta ai cambiamenti climatici e ambientali, come il surriscaldamento del pianeta o la crescita di nuovi virus e parassiti. Oggi, però, la biodiversità è un patrimonio che rischia di estinguersi, con gravi conseguenze non solo sullo sviluppo delle economie agricole, ma anche sulle scorte alimentari mondiali.
La perdita di varietà, tuttavia, non deve essere confusa con la perdita di diversità genetica. Nelle specie tuttora esistenti possiamo ritrovare tratti genetici tipici di specie ormai estinte. Ciò che è andato perduto non sono i geni, bensì la loro combinazione. Da che cosa dipende questa erosione? In parte dipende dalle strategie messe in atto dagli agricoltori. Molti, infatti, si sono concentrati su un’unica coltura. Le piante da monocoltura sono varietà ibride di una specie tradizionale: selezionando la varietà più forte e resistente, il contadino non si preoccupa più di piantare quella più vecchia, che alla fine scompare.
Veronica Rocco