Il maestro giapponese, in concorso alla 69esima Mostra dell’Arte Cinematografica di Venezia, con Outrage Beyond, sequel di Outrage del 2010, prosegue la strada della yakuza. Tra ragioni di visibilità e l’implacabile legge dei numeri, il film si presenta come un prodotto di cassetta, un gangster movie dal risultato piuttosto divertente. Poco si sente della rabbia intimistica dei primi film, vere perle da storia del cinema, che difficilmente si possono riconoscere in un lavoro di puro intrattenimento come questo. Anche la piatta connivenza tra polizia e yakuza non apre ad una critica, risultando qualunquista, più che nichilista. E se l’obiettivo del regista era dimostrare che “tutto il mondo è paese” in fatto di mafia, non colpisce nel segno.
La sceneggiatura, arzigogolata e affastellata, si aggroviglia su se stessa facendo perdere spesso e volentieri il filo. Si ride in sala. Tra sparatorie e spargimenti di sangue (quattro scene su cinque), i personaggi sembrano dei birilli nelle mani di nessuno, perché cambia di sequenza in sequenza il punto di vista e il puparo. L’unico colpo di genio lo si trova nell’esecuzione di un traditore a colpi di palle da baseball ma è poca cosa, per un’intera pellicola. Il regista stesso ha dichiarato di essere attratto dal gusto per lo shock, purché non sia fine a se stesso, eppure, francamente, non si riesce a scorgere tutta quest’esigenza drammaturgica, a conti fatti.
Se si prova a spostare il livello d’interpretazione sul piano dell’ironia, incontriamo ugualmente delle difficoltà oggettive: non c’è riso amaro, in questo film, che manca di sense of humour, perciò non ha spunti per generare alcun sorriso riflessivo. Il tradimento è, forse, l’unico filo conduttore della pellicola. Il tessuto antropologico, degenerato fino all’ultimo stadio, non rispetta più nessuna regola ed il boss Otomo-Kitano è il solo a rispondere ad un certo senso dell’onore. Egli, per dovere, giustizia il tradimento ma non riesce a far decollare il film neppure nel finale.
Più che di oltraggio al boss si è di fronte ad un oltraggio alla tolleranza dello spettatore. Il maestro giapponese dimostra stanchezza in questo lavoro, sino a toccare le note soporifere della noia. L’unico vero merito della pellicola risiede nella recitazione degli attori, i quali usano un registro vocale talmente variegato, che sembra di sentire un lavoro orchestrale di pregiata caratura.
Margherita Lamesta