Ombra e ambiguità – onore e dignità - dialettica tra essere e apparire, verità e menzogna, povertà e soldi, sogno e realtà - sono i temi presenti nell’ultimo lavoro del maestro portoghese Manoel de Oliveira, tratto dall'omonimo racconto di Raul Brandão e interamente girato in francese, come omaggio alla Francia. 104 anni il prossimo dicembre e non li dimostra, due volte Leone d’oro alla carriera (nell’85 e nel 2004), Palma d’oro alla carriera (nel 2008), il “ragazzo” resta coerente alle radici letterarie, nel suo cinema. “Il teatro è un’arte ma il cinema non è che un mezzo per fissare ciò che si recita davanti alla macchina da presa”, è quanto il grande cineasta ha avuto modo di affermare, in passato.
In stretta coerenza con la sua visione del cinema, infatti, Gebo e a sombra è quasi esclusivamente composto da lunghi piani fissi. Il maestro ha sempre privilegiato una sintassi parca di movimenti di macchina però, in quest'ultima opera, il gusto visivo dell'autore prende una direzione così radicale, da diventare sinonimo d’inerzia. A 103 anni è indubbiamente faticoso spostare la macchina da presa ma a questo servono gli operatori. E a peggiorare il punto di vista c’è la mancanza di dinamicità dentro l’immagine stessa che, pur inserita in una sintassi fatta di piani fissi, avrebbe potuto evitare un risultato completamente anticinematografico. È una vera e propria pièce teatrale il film di de Oliveira, girato in soli venticinque giorni, un lavoro di teatro filmato, invece di un’opera cinematografica.
È puro teatro anche l’impianto narrativo: un primo, un secondo e un terzo atto, rispettivamente individuati nell’ introduzione dei temi della rappresentazione e nell’attesa del ritorno del desaparecido figlio Joao- parte prima – nel ritorno di Joao-Ricardo Trepa, con il suo trambusto pronto a rompere gli equilibri – parte seconda – nella silenziosa tragedia consumata in famiglia, che il ritorno del figlio ha sciaguratamente provocato – parte terza.
Il tema è attuale - con la crisi che c’è, quale miglior momento per parlare di povertà - e gli interpreti sono di pregio, tanto che ognuno di loro ha certamente dato un valore aggiunto al film, perché de Oliveira, coerentemente con il proprio stile, punta sulle persone ancor prima che sugli attori. Tenere gli attori tutti in uno stesso ambiente, per far nascere un legame intimo tra le persone è un raffinato modo di dirigere indiretto, che si preoccupa di costruire un legame a priori dei ruoli stessi. Inoltre, è la prima volta che il maestro affronta il tema della povertà, secondo uno sguardo duro sul valore dei soldi e del potere, la cui mancanza rende difficile, se non impossibile, la vita. La mancanza di soldi e potere permette il sogno o condanna allo stesso, dipende dai punti di vista. Si è poveri perché non si ha il coraggio di affrontare la vita, sembrerebbe suggerire la pellicola. Gebo-Michael Lonsdale sottrae alla realtà la moglie Dorothea – Claudia Cardinale ela figlia-nuora Sophie-Leonor Silveira, per amore e per proteggerle. Ancora per amore e protezione, e perfettamente in coerenza con la propria indole, egli si addossa la colpa di qualcosa che non ha commesso. Un’esistenza grigia la sua, criticata ferocemente da sua moglie, eppure protegge tutti, sotto una coltre di quieto vivere, che non salva, però, dall’interrogativo sui motivi della scelta di vita del figlio.
È nell’ambiguità il valore del film. Serpeggia come un segreto nella sceneggiatura, che fa vedere sulla scena sia chi agisce e parla sia gli altri, sul cui volto si possono così leggere le reazioni. Conflitto e mistero sono chiari, eppure un segnale su un cammino di speranza è dato dalla prua della nave inquadrata all’inizio, che conforta sull’ignoto futuro del mondo: tutti elementi, questi, che portano la pellicola su un piano interpretativo non immediato, volutamente non immediato. Gli stessi poveri, protagonisti dell’opera, non lo sono poi tanto, nella resa né nell’immagine. Non sono davvero vestiti da poveri e, nonostante la bravura degli interpreti o grazie alla stessa, non si ha mai l’impressione di vedere dei veri poveri. Ecco che il piano interpretativo si sposta su un livello più intellettuale: “una filosofia della povertà” è qui messa in scena, piuttosto che una rappresentazione della stessa, come ha affermato lo stesso Luís Miguel Cintra.
In conclusione, un film di esclusiva fruizione intellettuale, di indubbia eleganza ma molto più adatto ad un palcoscenico, che ne avrebbe conservato e restituito la vitalità perduta col passaggio su pellicola.
Margherita Lamesta