L’impronta Ecologica dell’Europa: sviluppo economico e sostenibilità
L’Europa negli ultimi quarant’anni ha conosciuto una vertiginosa crescita economica. Eppure, secondo uno studio condotto dal WWFi in collaborazione con la Global Footprint Network, se tutti gli abitanti della Terra vivessero come gli Europei ci sarebbe bisogno di 2,6 pianeti.
L’Europa, insomma, vive ben al di sopra dei propri limiti e rischia di liquidare, in un futuro molto prossimo, il capitale naturale del pianeta, se non intraprenderà una politica di sviluppo sostenibile.
La ricerca, presentata alla conferenza europea “Beyond GDP” (“Oltre il prodotto Interno Lordo”), prende in considerazione tre parametri fondamentali: la crescita economica, misurata in base al PIL, la pressione sull’ambiente, calcolata tramite la cosiddetta “Impronta Ecologica”, o IE, e infine lo Sviluppo umano, che si basa sull’Indice di Sviluppo Umano dell’ONU (Human Development Index o HDI).
Innanzitutto, che cosa si intende per “Impronta Ecologica”? L’impronta ecologica misura la pressione che un determinato Paese esercita sull’ecosistema e comprende l’insieme globale delle risorse agricole, forestali, marittime necessarie sia per soddisfare i consumi di quel Paese che per metabolizzarne i rifiuti [1].
Se confrontiamo l’impronta ecologica dei Paesi europei con la loro “biocapacità”, ossia con la capacità di produrre e fornire risorse, vediamo che nel 2003 l’IE dei Paesi dell’Unione Europea era pari a 2.26 miliardi di ettari complessivi, mentre la biocapacità ammontava a 1,06 miliardi di ettari. Negli ultimi dieci anni l’impronta ecologica dell’Europa è aumentata del 16%, con un tasso di crescita superiore rispetto a quello della popolazione. L’Europa, dunque, è diventata a tutti gli effetti un “debitore ecologico”.
Per ridurre, o perlomeno contenere, questo trend negativo, il continente europeo deve puntare su uno sviluppo sostenibile. Il concetto di “sostenibilità”, che ha acquistato sempre maggiore rilievo nella letteratura scientifica contemporanea [2], può essere definito come un’etica dell’adattamento dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo ai limiti biologici dell’ecosistema in cui vive. Purtroppo, l’Europa di oggi non sembra puntare verso questo obiettivo, come dimostrano i dati riportati dal WWF.
I parametri utilizzati per valutare la sostenibilità sono l’Indice di Sviluppo Umano (Human Development Index o HDI) e l’Impronta Ecologica. L’indice di sviluppo umano misura il benessere di un Paese sulla base di alcuni fattori, tra cui l’aspettativa di vita, il tasso di alfabetizzazione, il livello di scolarizzazione. La sostenibilità di un Paese è determinata dalla coesistenza di due parametri: un Indice di Sviluppo Umano superiore a 0.8 e un’Impronta Ecologica inferiore a 1.8.
L’unico Paese europeo che nel ’95 rispettava entrambi i parametri era la Slovenia [3]. Ma già nel 2003 lo Stato balcanico ha più che raddoppiato la propria Impronta Ecologica a fronte di un aumento dell’Indice di sviluppo umano del 5%.
Il vero problema – come sottolinea il rapporto del WWF – è che in molti Paesi il valore dell’IE continua a crescere anche quando è stato già raggiunto un adeguato livello di sviluppo economico.
L’Europa nel suo complesso, dunque, resta un debitore ecologico, fatta eccezione per la Finlandia, la Lettonia e la Svezia.
I segnali di cambiamento, tuttavia, ci sono. La Germania, per esempio, nonostante abbia una IE due volte e mezzo superiore alla propria capacità di produrre risorse, è all’avanguardia in Europea nella creazione e nell’utilizzo di energie rinnovabili, che hanno progressivamente ridotto il consumo di carbone. In questo modo, il Paese è riuscito a mantenere invariata l’Impronta Ecologica e ad aumentare la propria biocapacità.
Non altrettanto bene vanno le cose per la Spagna, sebbene sia uno dei principali produttori di energie rinnovabili in Europa. Nel 2003, infatti, la sua IE era il 15% più alta della media europea e il 150% più elevata della media globale. All’ultimo posto nella classifica dei debitori ecologici troviamo la Romania, di cui però è difficile anticipare i trend futuri, essendo da poco entrata a far parte dell’Unione Europea.
Crescita economica e indebitamento ecologico, dunque, sembrano essere un binomio indissolubile. Lo sviluppo di metodi di coltivazione innovativi e la produzione di energie rinnovabili contribuiscono a ridurre la pressione umana sull’ambiente, ma la biocapacità resta comunque una risorsa limitata. A questo bisogna aggiungere che le attuali infrastrutture hanno un’aspettativa di vita decisamente lunga: fino a 50 anni per un’autostrada, fino a 75 anni per una centrale a carbone, fino a 100-150 anni per una ferrovia o una comune abitazione. Le infrastrutture a lungo termine rischiano di mettere a repentaglio il futuro benessere del pianeta poiché si basano su un’elevata richiesta di risorse energetiche. Per migliorare la qualità della vita occorre invece iniziare a progettare e realizzare infrastrutture eco-sostenibili, pensare le città in termini di efficienza energetica, dotandole di dispositivi non inquinanti e di un adeguato sistema di trasporto pubblico e pedonale.
Uno sviluppo sostenibile è ancora possibile, ma, come osserva Meadows nel suo saggio “I limiti della crescita”, lo è a patto che la società abbia il tempo, l’energia e la volontà di innovare, di preservare le risorse del proprio ecosistema, e che si impegni a migliorare la qualità della vita più che a espandere i propri consumi.