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Lo shock della riproducibilità tecnica. Walter Benjamin e la fotografia allegorica

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In Le message photographique ( Communications 1, 1961), Roland Barthes afferma che la fotografia è “un messaggio senza codice”. Secondo lui, infatti, l’immagine fotografica, in quanto analogon della realtà, funzionerebbe, ad un primo e più fondamentale livello, secondo il regime della “denotazione”. L’impressione denotativa che suscita la vista di una fotografia, osserva Barthes, è così’ intensa da rendere impossibile qualunque descrizione, dal momento che ‘descrivere’ significa aggiungere al messaggio denotato un messaggio ‘codificato’ di secondo livello: quello del linguaggio verbale.

La denotazione, tuttavia, non esclude la connotazione,  anzi è proprio questo il paradosso della fotografia: la coesistenza di due messaggi – uno senza codice, l’altro codificato. La connotazione ha sempre e comunque un carattere storico-culturale poiché i suoi segni sono gesti, atteggiamenti, espressioni il cui significato è totalmente radicato nelle pratiche discorsive di una certa società.
La pura denotazione - afferma Barthes - è caratteristica di un numero assai ridotto di fotografie, le quali, paradossalmente, non appartengono alla categoria dell’ “insignificante”, del “neutrale”, dell’ “oggettivo”, bensì a quella del “traumatico”. Il trauma, infatti, provoca una sospensione del linguaggio, e quindi del codice:

 Le fotografie veramente traumatiche sono rare, poiché nella Fotografia il trauma dipende totalmente dalla certezza che la scena sia avvenuta ‘realmente’: il fotografo doveva esserci (la definizione mitica della denotazione). Partendo da questo presupposto (il quale, a dire il vero, è già una connotazione), la fotografia traumatica (…) è la fotografia sulla quale non c’è nulla da dire; la foto-choc è strutturalmente insignificante: niente valore, niente sapere, al limite nessuna categorizzazione verbale può governare il processo che istituisce la significazione. Si potrebbe supporre una specie di legge: più immediato è il trauma, più difficile la connotazione; o ancora, l’effetto mitologico di una fotografia è inversamente proporzionale al suo effetto traumatico”[1].

Se per Barthes le fotografie autenticamente traumatiche sono rare – essendo la fotografia la più ‘sociale’ delle istituzioni – per Walter Benjamin ogni fotografia è quel trauma, il trauma dell’esperienza in cui si consuma l’incontro tra l’opera d’arte e lo spettatore. La riproducibilità tecnica, infatti, pone fine all’estetica delle forme e inaugura l’estetica della fruizione, in cui tutto il significato estetico, anziché cristallizzarsi nell’opera-frammento, si scioglie nella storia della sua Wirkung, ossia della sua fortuna, ricezione e interpretazione nella cultura e nella società .

Lo shock della riproducibilità tecnica dell’immagine, secondo Benjamin, parla il linguaggio dell’allegoria. Quando, nel XIX secolo, la tradizione non è più patrimonio comune e condiviso, i segni si trasformano in altrettanti geroglifici. “Nell’occidente pre-industriale”, scrive Grassi, “gli oggetti prodotti dalle arti accedevano alla visibilità, producevano messa in scena sociale quando avevano la capacità di rappresentare: trasformare in corpo culturale il sentimento collettivo di un’epoca”[2] . La possibilità stessa di “rappresentare” poggia su un assunto fondamentale che la società industriale e postindustriale hanno cancellato: l’unità inscindibile di uomo e mondo. I processi di riproduzione prima, di automazione poi, infatti, ci hanno rivelato l’assoluta eterogeneità di queste due entità, entrambe minacciate da un terzo attore apparso sulla scena sociale: i sistemi automatici che non possono essere più considerati semplici protesi della razionalità umana, bensì potenti antagonisti sia dell’umano che del naturale.

Una interessante riflessione sulla crisi della rappresentazione e sul carattere allegorico della fotografia, a mio avviso, ci viene offerta da Walter Benjamin nel suo saggio autobiografico, intitolato Infanzia berlinese. A rigore, non si tratta di un saggio né sull’allegoria né sulla fotografia e, in origine, non era stato neppure concepito dall’autore come scritto autobiografico. Ciononostante, esso può fornirci alcuni spunti di riflessione sul carattere eminentemente privato e individuale, che la ‘fotografia allegorica’ ha assunto nel corso del XX secolo. Benjamin respinge vigorosamente ogni ipotesi oggettivistica sull’immagine fotografica, nel senso di copia fedele e perfetta della realtà. Affinché la storia possa affiorare alla superficie dell’immagine, occorre distruggere la coerenza che questa stessa superficie oppone al nostro sguardo. Solo così la fotografia potrà diventare fonte di dissonanza traumatica.
Quella di Infanzia Berlinese è un’autobiografia senza nomi, senza volti, ma satura di oggetti e luoghi singolari, luoghi svuotati di ogni presenza  umana esattamente come lo sono le fotografie parigine di Eugene Atget, che Benjamin paragona ai “luoghi di un delitto”. I cortili abbandonati, il profilo tagliente di un albero spoglio, le silenziose architetture d’interni che Atget ritrae con tanto pudore colgono sistematicamente le tracce di un’assenza, suggeriscono silenziosamente la presenza di un ‘è stato’ o di un ‘non è ancora’ – si pensi alle immagini di tinelli vuoti di uomini ma ancora saturi del loro passaggio, congelato nell’assembramento scomposto di oggetti usati, piatti, stoviglie, resti di pietanze. Questi oggetti della vita quotidiana, spesso scartati o dimenticati, colgono l’assenza di una distanza di mediazione all’interno della stessa coscienza, quella distanza che, nella rappresentazione, permetteva ancora di distinguere fra un Io con del senso da donare e un’altra cosa che, essendone sprovvista, aspetta di riceverlo. Adesso la figura stessa di Benjamin si eclissa dietro l’orizzonte delle cose, quasi risucchiata da quel che la circonda, costretta a contemplare quegli oggetti, persino ad identificarvisi, e a vedere se stessa come una “cosa tra altre cose”. E’ questa identificazione/estraniazione che, secondo Benjamin, caratterizza la fotografia come esperienza traumatica: la percezione della somiglianza, che è condizione essenziale di ri-conoscimento, viene costantemente negata dallo shock di guardare se stessi come ‘altro da sé’, di catturare il passato nel lampo luminoso dello scatto fotografico come immagine che turbina in un istante lasciandoci la consapevolezza che non lo rivedremo mai più.
L’ipotesi modernista di un ‘Io universale’ sottolineava l’impulso poietico dell’homo faber, la cui soggettività “esce fuori da se” e si estrinseca in artefatti materiali. Tanto la scienza quanto l’arte operano attraverso rappresentazioni non all’interno della sfera oggettuale, ma in quella della soggettività, che è sempre in grado di operare riflessivamente, in opposizione al mondo della sensazione e degli oggetti. Nell’autobiografia di Benjamin, invece, gli oggetti avvolgono l’individuo in una trama sottile e impenetrabile di “segni indecifrabili”. L’universo di Infanzia berlinese, infatti, non è tanto un universo di segni, quanto piuttosto di ‘tracce’. Se il segno rappresenta, nella misura in cui ripete, amplifica e arricchisce la realtà, la traccia è “solo l’apparizione di un’apparenza, nient’altro che simulacro, immagine di immagine”[3]. La presentazione, che è il modo in cui la traccia si mostra, espone “il corpo di un’immagine in modo da mettere a nudo la radicale eterogeneità tra il pensiero e il reale naturale: da mostrare la realtà nel suo aspetto non completamente riducibile alla ragione”[4]. L’oggetto, nell’autobiografia di Benjamin, presenta già quella ‘opacità’ che è così tipica dell’immagine postmoderna. Quest’ultima, infatti, come osserva Carmagnola, rovescia il rapporto proiettivo fra il sé e il mondo:

 Gli effetti visibili – tutti – in realtà parlano del soggetto che noi siamo. Ma anche lo fanno, lo costruiscono, lo costituiscono. Non c’è un ente retrostante che usa le pellicole effimere del fashion e dei media per rappresentarsi (…) così come (…) non c’è un’interiorità che si costituisce prima dell’esteriorità del linguaggio e che in essa si esprime[5].

Nel XX secolo, l’allegoria segna il passaggio dalla storia al discorso, ossia dall’ipotesi di un Io universale e di un’opera d’arte perfetta e in sé conchiusa alla centralità del lettore/consumatore. Ma è proprio l’enfasi posta sulla ‘ricezione’ e sulla ‘fruizione’ – si pensi al readymade di Duchamp – a sollevare il problema della leggibilità dell’allegoria. Se l’interpretazione dell’allegoria barocca, che Benjamin analizza nel saggio sul Trauerspiel, dipendeva dalla conoscenza del codice stabilito dalla tradizione, che è un bagaglio culturale comune e condiviso, una volta venuto meno quel codice, l’allegoria ‘impazzisce’ e assume un carattere sempre più privatistico, come sottolinea Franco Moretti a proposito de La Lettera Scarlatta di Hawthorne:

 Per una buona parte della storia, tutto concorre ad irrigidire l’univocità del segno-prigione (…) Ma poi, a poco a poco, un secondo livello semantico si affianca al primo. Pearl (…) assume la forma interrogativa di un “geroglifico vivente”(…)Infine, da elemento costitutivo della sfera pubblica, la lettera scarlatta si trasforma in una leggenda “privata”: stratificata, mutevole, diversa a seconda delle persone e dei luoghi…[6].

Che rapporto c’è tra l’allegoria e la fotografia? Apparentemente, nessuno, dal momento che la fotografia, per sua natura, non può fare a meno di “denotare” il mondo esterno. Barthes, infatti, definisce la fotografia “un messaggio senza codice”. Eppure, è lo stesso Barthes, ne La camera chiara, a smentire clamorosamente questa teoria, quando ammette di non poter inserire nel suo libro una vecchia fotografia che ritrae la madre bambina in un Giardino d’Inverno. Perché mai Barthes rifiuta di condividere con i suoi lettori un’immagine sulla quale indugia tanto a lungo e che gli fornirà l’occasione per sviluppare le sue straordinarie riflessioni sulla nozione di punctum? E’ lo stesso Barthes a darci la risposta:

 Esiste solo per me. Per voi, non sarebbe nulla più che una fotografia indifferente, una delle migliaia di manifestazioni dell’ordinario; non può in alcun modo costituire l’oggetto visibile di una scienza, non può stabilire un’oggettività, nel senso positivo del termine; al massimo, potrebbe interessare il vostro studium: epoca, abbigliamento, fotogenia, ma in questo, per voi, nessuna ferita [7].

Egli rifiuta di riprodurre quella fotografia nel testo poiché si rende conto che i suoi lettori non dispongono del ‘codice’ per interpretarla in modo corretto. Si tratta di un’allegoria, poiché, pur restando un linguaggio codificato, ha cessato di essere proprietà comune di una cultura ed è diventata un linguaggio squisitamente intimo e personale, che nessuno, eccetto il soggetto stesso, può decifrare.
Questo ‘slittamento’ da un sistema di significati condivisi alla deriva semantica propria del discorso allegorico caratterizza, secondo me, il consumo immaginale contemporaneo che, mediante operazioni di decontestualizzazione e riposizionamento, costringe l’osservatore a compiere interpretazioni trasversali, associazioni ardite, a cogliere, al pari del poeta foucaultiano, “un altro discorso, più profondo, che richiama il tempo in cui le parole scintillavano nella somiglianza universale delle cose”, e dunque, a manipolare i segni della moda, della pubblicità, dell’informazione, creando un universo di senso autonomo e, perché no, oppositivo.


Note
[1] Barthes, Roland “La camera chiara. Nota sulla fotografia”. Einaudi 2003
[2] Grassi, Carlo, “La macchina e il caso. Sociologia del dispositivo fotografico”. Edizioni Lavoro, 1995.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Carmagnola, Fulvio, Vezzi insulsi e frammenti di storia universale, Lucasossella, 2001, p.235
[6] Moretti, Franco, Opere mondo, Einaudi 2003, p.81
[7] Barthes, Roland “La camera chiara. Nota sulla fotografia”. Einaudi 2003

 

Veronica Rocco

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