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Eros e thanatos in Wakamatsu. “Semmen no Yuraki” (The Millennial Rapture) - Orizzonti – Venezia 2012

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Tratto da Mille anni di piacere(1982), la raccolta di racconti dello scrittore Kenji Nakagami (un burakumin orgoglioso delle proprie origini), l’ultima opera del prolifico regista giapponese, Korij Wakamatsu, affronta l’eterno binomio/dicotomia tra eros e thanatos.

I maschi della stirpe dei Nakamoto sono destinati a spegnersi in maniera violenta, dopo aver fatto strage di cuori nei Roji, i 'Vicoli' dove vivono ghettizzati insieme ad altri burakumin – letteralmente gli abitanti del villaggio. Questi emarginati rappresentano la casta di grado più basso, nel sistema feudale giapponese, condannati da sempre all’emarginazione, perché impuri e oppressi dall’ombra della morte.

 

Oryu, nutrice anziana, molto malata, che diversi Nakamoto ha visto nascere e morire, ne racconta le gesta, mentre giace sul proprio futon, parlando all’immagine del marito defunto. Le riflessioni della donna riguardano i maschi della stirpe. Sono belli, destinati all'infedeltà, ad una vita sopra le righe e ad una morte precoce: Hikonosuke muore per mano di un'amante tradita, mentre nasce suo figlio - Hanzo, donnaiolo impenitente come suo padre, è incapace di guadagnarsi una stabilità negli affetti come nel lavoro – Miyoshi è dedito alle emozioni forti di sesso, droga e furti – Tatsuo viene “deviato” per mano della stessa nutrice. Tutti condannati a morte precoce e salvati dalla vecchiaia, proprio come avviene nel mito.

Nell’incipit, c’è tutto il significato simbolico del film: la mdp esplora una parete rocciosa, soffermandosi su una cavità che richiama il sesso femminile, il principio della vita. Anche il finale chiude sulla stessa cavità rocciosa dell’inizio, come se la donna rappresentasse l’alfa e l’omega della stirpe, il motore d’azione e la causa di dissoluzione. Lo stesso regista afferma di aver voluto omaggiare le donne, che “fanno scorrere il proprio sangue per generare la vita”, detentrici di una forza che si può esprimere solo con la potenza delle immagini.

È interessante il modo di lavorare del maestro giapponese che preferisce lasciare molta libertà agli attori, i quali sono così stimolati a contribuire alla creazione interpretativa e visiva del proprio personaggio. Al regista interessava anche parlare di discriminazione, con questo film. È difficile che i problemi endogeni del Giappone varchino i propri confini, per essere sottoposti agli occhi e al giudizio del resto del mondo. Col cinema, invece, si ha questa possibilità, perché c’è il vantaggio della fantasia attraverso cui veicolare certi messaggi, a maggior ragione nel caso in cui oltre ad essere il regista di un lavoro si riveste anche il ruolo di producer.

Storicamente, Wakamatsu ha privilegiato sesso e bellezza nei suoi film, specie come contropartita per il potere. In questa pellicola, invece, i toni sessuali si sono raffinati e ammorbiditi. Resta il potere dell’impulso sessuale ma l’estetica della lussuria è meno ingombrante e la bellezza rimanda ai poeti maledetti, perfettamente inscritti nella definizione dell’eroe romantico votato ad un’esistenza tragica, dove il sentimento drammatico, però, cede il passo ad un’accettazione rassegnata del mistero della vita e della morte. I contorni formali del film, infatti, sono come epurati e ne dà prova il commento musicale costituito dal solo suono dello shamisen.

È il ciclo della vita che si ripete in modo perenne e il maestro giapponese, presente a Venezia 2012, nella sezione Orizzonti, ha saputo rappresentarlo con raffinata ed ironica leggerezza. Tutti a capo chino di fronte all’inesorabile legge di natura, siamo esortati dal regista ad una libertà impossibile, nella realtà, che solo in una dimensione mitica, assaporata nel sogno, può trovare la sua espressione.

 

Margherita Lamesta

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