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Monicelli, il misogino (?). Monicelli, la versione di Mario – Venezia Classici-Documentari 2012

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È stata presentata al Lido, per Venezia Classici-Documentari, Monicelli, la versione di Mario. Si tratta di una lunga intervista raccontata da cinque registi, Felice Farina, Mario Canale, Annarosa Morri, Wilma Labate e Mario Gianni che hanno collaborato con il grande maestro della commedia italiana. A circa due anni dalla sua scomparsa, il docu-film rende omaggio al cineasta viareggino, dipanandosi tra cinque capitoli - Mestiere, Origini, Risate, Confidenze, Politica - montati come un mosaico e costruiti con un sapiente collage di immagini di repertorio, foto, sequenze di film, testimonianze di amici e collaboratori, di prezioso valore, data la ricercatezza delle scelte.

 

Significativo, per gli inizi, è l’accenno alla sua attività di umorista per la rivista Marc’Aurelio, a voler indicare una scalata che con tenacia toccò tutti i pioli del percorso, la cui attività registica è da collocarsi a valle e non a monte, come la giusta ricompensa di un credo tanto lucido e vigoroso.

Mario Monicelli, il mestierante, dal 1935 fino alla fine non si è mai fermato un solo attimo. Cominciò come ciakkista, porgendo il cappotto al regista, per arrivare all’invenzione stessa della commedia all’italiana, assieme a Steno e a grandi interpreti come Totò.Il suo sguardo sulla vita, tagliente, onesto, trasfigurato nel suo linguaggio cinematografico, è di tipo umile ma aperto, verace. Ha, infatti, avuto la capacità d’incidere sul suo presente, affinché si lasciasse qualcosa ai posteri. Attori drammatici, carichi di drammi profondi alla base dei personaggi interpretati, Monicelli li inserì in un tessuto comico. È quanto accadde con I soliti ignoti. La genialità di stravolgere l’iconografia medievale, espressa nel linguaggio inventato per l’Armata Brancaleone, raggiunse un risultato di originalità tale che fece scuola ed epoca.

Monicelli amava il cinema ed ha ricoperto molti ruoli prima di entrare nell’Olimpo di sceneggiatura e regia. Amava raccontare storie, come lui stesso dice, e queste portavano dentro il tessuto politico, economico, culturale e sociale dell’autore, per il semplice fatto che erano presenti in lui in modo pregnante, tanto da rendere il suo operato un lavoro dal marchio inequivocabile. Il graffio burbero, caustico del maestro, sempre acuto e critico, che contrappone la genuinità della campagna toscana al caos della metropoli è lo sfondo su cui si stagliano le donne di Speriamo che sia femmina. Liv Ullmann, Catherine Denueve, Giuliana de Sio, Stefania Sandrelli, tutte grandi interpreti – con una predilezione personale per la Sandrelli nella costruzione del ruolo - vengono fuori distintamente anche in un film corale e mettono alla gogna la cialtroneria maschile, con la firma sempre ruvida ma onesta del maestro. Lui che era misogino – anche se sua figlia lo smentisce - presenta come una catarsi con questo film, regalando ai posteri un vero omaggio alla donna, ricco di rispetto e considerazione.

Le firme del documentario sono molte ma riescono a dare compattezza al lavoro, che segue una logica narrativa, pur restituendo un quadro parziale del personaggio – e non poteva essere diversamente, data la prolificità del maestro, autore di ben sessantatre film. C’è come una leggerezza ironica, a volte sarcastica, nel filmato, in cui lo stesso maestro, probabilmente, si sarebbe potuto riconoscere.

 

Margherita Lamesta